Andrea Zhok

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Antropologia / Filosofia / Politica
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Notizie e analisi sull'attualità e la geopolitica.

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1° in Politica Internazionale

Last updated 2 weeks, 6 days ago

2 months ago

A spoglio concluso le elezioni presidenziali in Russia hanno dato il seguente esito.

Ha vinto con l'87% dei voti Vladimir Putin.

L'affluenza alle urne è stata la più alta dal 1991, pari al 74,2%.

Alle spalle di Putin (si fa per dire) è il Partito Comunista con Kharitonov (3,9%). Dunque le forze dichiaratamente avverse al modello liberale rappresentano circa il 91% delle preferenze.

Questo mentre i nostri eroi della liberaldemocrazia viaggiano intorno al 30% di gradimento interno (così Biden, così Macron, così Scholz, così Sunak).

Ecco adesso non guardo neppure i giornali, perché le reazioni di questi personaggi è prevedibile quanto un riflesso patellare:
"Ma la Russia non è una vera democrazia! La gente va a votare con un Kalashnikov puntato alla schiena! I media condizionano l'opinione pubblica! Non riconosciamo i risultati, ecc."

Che in traduzione simultanea geopoliticamente avvertita suona:
"Allora non gioco più e ti buco il pallone, ecco!"

Ma la verità è semplice, sinanche banale.
Putin ha dimostrato di riuscire a fare in modo intelligente, spregiudicato ma equilibrato, l'interesse del proprio popolo, trasformando quella che era considerata, secondo le parole del sen. MacCain, un "distributore di carburante travestito da stato" ("A gas station masquerading as a country") in una nazione capace di futuro.

Di contro la classe politica più fallimentare della storia occidentale, gente che ha come orizzonte politico la trimestrale di cassa, che riciccia da mezzo secolo le stesse tre ideuzze putrefatte, che è disposta a vendere qualunque parente di qualunque grado, nonché sé medesimi, a prezzi di mercato, che tiene a catena cortissima la quasi totalità dei media occidentali, che è abituata a darsi incestuosamente ragione l'un l'altro in inconsapevole consanguineità politica, questa gente ha condotto i propri popoli sugli scogli. E continua a farlo, decomponendo giorno dopo giorno quel poco che resta in piedi.

Ma quegli stessi popoli, per quanto sprovveduti e fuorviati, oramai lo hanno capito, o almeno intuito.

Dunque le nostre classi politiche possono pure continuare a imbastire fieri cipigli, ad agitarsi, a sbambare di libertà e democrazia, a scambiarsi l'uno l'altro medaglie e benemerenze, ma il verdetto storico è già arrivato. Verranno ricordati come coloro i quali con la loro corruzione, arroganza, presunzione e insipienza hanno decretato, finalmente, il tante volte evocato "tramonto dell'Occidente".

Resterà alla prossima generazione, se riuscirà a farsi spazio, di ricostruire una speranza su queste macerie, ritessendo rapporti con il resto del mondo, di cui siamo solo una piccola parte.

2 months, 3 weeks ago

Giorgia Meloni a nome dello stato italiano ha firmato un accordo bilaterale di cooperazione per la Sicurezza con il presidente ucraino Zelenski.

L'accordo ha validità decennale (10 anni).

L'accordo impone all'Italia di intervenire in sostegno di Kiev entro 24 ore in caso di nuovo attacco di Mosca e di continuare a fornire aiuti economici e militari al governo ucraino.

L'Italia si impegna inoltre a favorire l'ingresso dell’Ucraina nell’Unione Europea e nella Nato.

Si prospetta poi la possibilità di addestrare l'esercito ucraino e di condurre esercitazioni da parte dell’esercito italiano anche in territorio ucraino.

In sostanza, non paga di aver bruciato ottimi rapporti pluridecennali con la Russia, di aver buttato un numero indefinito di miliardi (i numeri sono secretati) nel sostegno bellico all'Ucraina, di aver contribuito ad un'esplosione dei prezzi dell'energia che ha impoverito il paese e proseguito nell'attività di deindustrializzazione, ora Giorgia Meloni vuole lasciare il suo segno nella storia legando l'Italia sempre più strettamente ad un paese che sta colando a picco, militarmente ed economicamente, esponendola in maniera crescente sul piano bellico.

Infatti un articolo come quello che impegna l'Italia ad un'immediata risposta di sostegno in caso di "nuovo attacco russo" o è una buffonata pour parler (e allora è una vergogna) o è un impegno che simula l'articolo 5 dell'Alleanza Atlantica, e allora è un suicidio.

Inoltre l'idea di inviare "istruttori italiani" ad addestrare l'esercito ucraino sarebbe ridicola (l'esperienza bellica degli ucraini oramai si mangia a colazione quella italiana), se non fosse un modo informale di inviare truppe operative. Ricordiamo che nella guerra del Vietnam per molti anni gli USA ufficialmente avevano sul territorio soltanto "istruttori e consiglieri militari" (decine di migliaia), con il compito ufficiale di addestrare le forze anticomuniste locali. Ed è tecnicamente impossibile distinguere tra un militare ordinario e un militare con compiti di "istruire e consigliare".

L'idea poi di sostenere l'ingresso dell'Ucraina nella Nato, per quanto non nuova, riapre la ferita di ciò che sin dall'inizio è stato il casus belli con la Russia, che dopo aver visto una continua espansione a est della Nato aveva posto un veto reiterato al passo fatale dell'ingresso ucraino in un'alleanza militare ostile (l'Ucraina ha il più ampio e permeabile del confini, quello da cui nella storia sono venute le maggiori minacce all'esistenza dello stato russo.)

Tutta l'operazione è condita dalla solita pioggia di denari pubblici a perdere, che rientreranno soltanto in parte in commesse all'industria bellica nazionale.
In sostanza, una volta di più, Giorgia Meloni sta contribuendo (come molti prima di lei, va detto) ad un trasferimento diretto di risorse pubbliche da scuole e ospedali italiani, per cui la coperta è sempre cortissima, alla solita banda di oligarchi amici degli amici. E questo coinvolgendo tutti gli italiani in un ruolo di nemici di una grande potenza nucleare.

Ecco, scriviamo questo in attesa di vedere se la "lista di putiniani in Italia" che Zelensky ha promesso di dare alla premier italiana per sanzionarli sia già arrivata a destinazione.
Già perché, per chi se lo fosse dimenticato, tutto questo sfacelo nazionale è fatto nel nome della libertà e della democrazia.
Che ci facciamo insegnare da chi rivendica orgogliosamente il retaggio delle SS Galizien.

4 months ago

A lettura conclusa il volume di C. dà l’impressione di essere un lavoro nato per affrontare un nodo particolare del panorama politico (la dicotomia Dx/Sx) e ritrovatosi, per lo sviluppo interno dei problemi, a trattare di temi speculativamente cruciali. A tratti il testo sembra ancorarsi in questioni particolari di politica italiana, per poi portare d’un tratto il lettore di fronte a temi globali e di rilievo storico. Il testo riesce in effetti a togliere la quotidianità spesso abbrutente della politica dalla sua dimensione spicciola, mostrandone il carattere decisivo ed epocale. I temi della storia, dell’identità, della tradizione, dell’intersoggettività, del contrasto tra sustruzione teorica e mondo-della-vita si intersecano nel testo dando un respiro filosofico inusitato per un’analisi politica. Naturalmente questa collocazione di mediazione tra la sfera dell’attualità (o semi-attualità) politica e la sfera dell’approfondimento speculativo espone il testo a un doppio rischio, da un lato di risultare speculativamente sottoargomentato in alcuni passaggi di particolare peso e dall’altro di risultare in altri passaggi di non semplice fruizione per il lettore filosoficamente ignaro. Ma questo è un destino inevitabile a chiunque cerchi di mediare tra livelli che, purtroppo, mai nel dibattito pubblico vengono fatti interagire.

4 months ago

La chiusa del quinto capitolo presenta le fondamentali tesi positive del testo, tesi che hanno a che fare essenzialmente con il tema dell’identità collettiva (politica, culturale, storica, sociale). L’atto di nascita della ragione liberale fu il rigetto strutturale delle guerre di religione. In quell’atto inaugurale ogni identità collettiva sostanziale venne respinta come pericolo, come potenziale latore di un conflitto. Nel testo si mostra come in forme diverse Destra e Sinistra ereditino quell’impianto, operando per una distruzione di ogni identità, in maniera più esplicita l’universalismo progressista della sinistra, in maniera dissimulata la destra, che fa dell’identità un vuoto mito retrò, una tradizione morta liberamente strumentalizzabile. La direzione in cui si muove l’analisi è invece quella di una rivalutazione dell’identità e perciò della differenza. Questa polarità non è infatti in alcun modo contraddittoria sul piano storico e collettivo. L’identità è relazione e apertura all’altri, il dialogo esiste solo tra identità. Quest’idea portante si dispiega all’interno di ciascun corpo politico sul piano della storia e della tradizione, e si esplica nei rapporti tra corpi politici diversi come rispetto e attenzione alle identità altre. L’affacciarsi odierno della prospettiva multipolare è visto da C. come un primo autentico ingresso nella “storia universale”, l’hegeliana Weltgeschichte, che non è la storia occidentale: “Ogni cultura si appropria della modernizzazione e della tecnica innestandola nella propria tradizione”. (144)

Secondo C. questo non significa affatto disdegnare i pregi della grande tradizione europea, ma al contrario recuperarne un elemento caratterizzante sin dal socratico “sapere di non sapere”: il “pensare la storia come una molteplicità o pluralità di storie.” (149)

Nel sesto e ultimo capitolo (“Verso il futuro: categorie della politica dopo Destra e Sinistra”) l’autore si mette alla prova con una serie di dicotomie trasversali a quella di Dx/Sx in uno sforzo di ampliare lo sguardo teorico e di esercitarlo su prospettive politiche non stantie. Tra le varie opposizioni dicotomiche che vengono prese in considerazione la prima, tra differenze e indifferenziato, è però forse quella che meglio riassume il senso complessivo del volume:

“Forse il grande scontro epocale verso cui ci avviamo non è tra Destra e Sinistra, ma uno scontro quasi antropologico tra chi è radicato in una storia, e cerca di attualizzarla, rinnovarla – perché riprendere e lasciare le consegne delle generazioni passate a quelle futura sono atti della libertà quanto il rifiutarle – e chi ha perso ogni radicamento, memoria, e ha in odio ogni cultura, ogni differenza, perché non avendo radici non le comprende. (…) Il conflitto che si sta aprendo è tra due tipi di esistenza, tra una cultura delle differenze e una cultura dell’indifferenziato. Una cultura delle identità, che proprio perché identità sono strutture di relazione e si costituiscono nella differenza, e una cultura dell’indifferenziato in cui non vi sono identità e dunque neanche differenze. L’identità non è infatti una chiusura, ma l’assunzione di una finitezza e di un’incompiutezza.” (153-154)

4 months ago

Nel quarto capitolo (“La diade D/S come sistema di esclusioni”) C. mostra analiticamente come la tendenza a ribadire l’intrascendibilità delle categorie di Destra e Sinistra si esplichi in un fattivo ostacolo ad altre possibili organizzazioni, concettuali e pratiche, del sistema politico. (p. 111)

“La funzione della diade è creare una polarizzazione che articola un campo liberale omogeneo che esclude come irrazionalità ed estremismo tutto ciò che si presenta come sua alternativa.” (p. 114) L’opposizione unidimensionale tra Destra e Sinistra ha dunque una funzione prescrittiva e non descrittiva. Tutto ciò che mira a trasformare l’ordine sociale esistente (non necessariamente per via rivoluzionaria) finisce per ricadere al di fuori della sfera del legittimamente politico (p. 119-120)

Nel quinto capitolo (“Sfide: irriducibili a D/S”) fa capolino il fantasma del “populismo” come possibile nome per un approccio politico irriducibile alla dicotomia unidimensionale Dx/Sx. Qui è particolarmente interessante come C. identifichi un rischio fondamentale nel populismo teorizzato dai suoi interpreti più affermati (Laclau, Mouffe). Questo populismo finisce per ricadere inavvertitamente ma fatalmente in una nuova versione della diade Dx/Sx. Ci si ritrova a trattare con un “populismo di destra” e un “populismo di sinistra”, dove “populismo” è semplicemente il nome di una strategia di conquista e amministrazione del potere. Populismo qui significa verticismo (leaderismo) fondato su significanti vuoti. Ma l’unico populismo accreditabile come effettivamente alternativo alla dicotomia Dx/Sx è l’opposto dell’astrattezza parolaia che caratterizza i populismi di destra o di sinistra; un “populismo nel mondo della vita” ha solo tattiche e non strategie, in quanto si muove nell’immanenza dei problemi e della ricerca delle soluzioni, rifuggendo da schematismi e ideologismi astratti.

Ma qui C. si scontra con un problema strutturale, di cui è ben consapevole, ma la cui soluzione è tutt’altro che ovvia. Un simile “populismo del mondo della vita” è in effetti un esercizio di democrazia reale e per poter esprimersi ha bisogno di condizioni di contorno ben definite, ovvero della costituzione di una sfera pubblica, con un’opinione pubblica formata e informata. Crearla doveva essere il compito dei corpi intermedi (partiti, associazioni, sindacati, ecc.), il cui fallimento nel fare ciò ha condotto all’odierno collasso della sfera pubblica. La degenerazione dei partiti in partitocrazia ha partorito la “mediacrazia”, il governo dei media.

“I media non si limitano a rappresentare l’evento o a nasconderlo: la loro funzione è di farlo accadere. La TV non rappresenta la realtà, la produce, e non perché la falsifica, ma perché trasforma in realtà un modello. (…) Gli eventi non esistono fuori dai media: come tutte le costruzioni mediatiche ogni evento può essere dissolto dai media. Una guerra finisce quando sparisce dai video. (…) I media non costruiscono una storia, ma spezzettano l’esperienza in una serie di istanti frammentati.” (133)

Rispetto all’orizzonte spudoratamente manipolativo dell’odierno apparato mediatico i social media hanno (o forse avevano) un potenziale correttivo. I social media sono in effetti efficaci a generare aggregazioni contro, dal basso contro l’alto. Essi, tuttavia, se permettono una decodifica dei messaggi, non pervengono mai ad un codifica egemonica oppositiva. Nel funzionamento dei social media la pars destruens ha strutturalmente la meglio sulla pars construens.

4 months ago

Ma oltre al tema della tradizione, c’è una seconda osservazione critica, a mio avviso ancora più profonda, che investe la riflessione marxiana, una critica che chiarisce bene le ragioni di un’involuzione politica altrimenti enigmatica: l’eredità marxista non difetta semplicemente sul piano della comprensione del senso della tradizione popolare, ma, più radicalmente, non comprende che la tematizzazione economica, per quanto cruciale e per quanto possa essere intesa nel senso radicale della “struttura” marxiana, non è in grado (diversamente dalla tradizione) di creare alcun profondo senso di comunanza:

“Dalla mera posizione comune rispetto ai mezzi di produzione non si origina alcun ‘noi’. Una comunanza di interessi economici non genera un ‘noi’, ed è questo limite profondo che ha reso alla lunga il marxismo inutile e disfunzionale dal punto di vista storico.” (64)
È a partire da questa doppia incomprensione che l’intellighentsia di sinistra, e parliamo qui di quella che si voleva “sinistra autentica”, “radicale”, ha finito per alienarsi nel modo più spettacolare la sfera popolare. Alle classi subalterne si è continuato a rimproverare di non adeguarsi al compito storico che gli intellettuali avevano loro assegnato, e dunque di “imborghesirsi”, laddove l’alternativa all’“imborghesimento” prendeva sempre più la forma di un ribellismo adolescenziale travestito da sofisticatezza culturale.

Un esempio eccellente di quest’ultima istanza è rintracciata da C. in Foucault, la cui lotta senza quartiere ai “dispositivi di potere”, essendo tali dispositivi ubiqui, diviene un modo per assolverne o oscurarne alcuni (p. 67). Per Foucault “l’uomo è il risultato di una tradizione, che vive in ognuno di noi come stratificazione che si è sedimentata, e ciò che Foucault ha di mira è la distruzione di ogni “tradizione”, poiché il potere alla fine non è altro che questa.” (p. 79)

Se tutto è dispositivo di potere che mira al controllo della persona, allora “non si tratta più di emanciparsi da forme di legame oppressivo, ma di cercare la dissoluzione del legame, perché è il legame in quanto tale a essere oppressivo”. (p. 68) In questo modo il potere non è più rappresentato né da una classe, né da un sistema produttivo, ma dalla società in quanto tale. Questo percorso conduce spontaneamente all’aristocratismo e libertarismo individualista in cui la sinistra radicale si è accoccolata a partire dagli anni ‘70. In questo contesto il “discorso sull’inclusione”, rimuovendo dal discorso pubblico il principale generatore di esclusione e di sfruttamento, cioè il mercato, finisce per isitituire tacitamente la più radicale delle esclusioni, quella delle classi popolari tout court. (p. 71).

In questo contesto C. sottolinea come dinamiche paradossalmente affini a quelle della vecchia “sinistra radicale” possono albergare anche nel “ribellismo antisistema” che tenta di superare destra e sinistra, nella misura in cui non porsi mai come obiettivo niente di meno del “crollo del sistema” finisce spesso per impedire di “portare alla luce il possibile nel reale” (72).

Nel terzo capitolo (“Destra/Sinistra: schema concettuale o realtà?”) C. osserva come la diade Destra-Sinistra sia divenuta un modo per organizzare nominalisticamente e retoricamente gli interessi in forme irrigidite, funzionali alla visione del mondo liberale. Destra e Sinistra si dispongono in una rappresentazione spaziale unidimensionale che per sua stessa natura blocca e castra ogni tentativo di seguire le esigenze e i bisogni emergenti dal “mondo-della-vita”. Presentando come naturale una sola articolazione questa strutturazione concettuale produce “una serie di ingiunzioni: se sei per l’uguaglianza devi anche essere progressista e nemico della tradizione, della religione, ecc. D/S prescrivono allora delle serie associative che vanno prese in blocco e non sono articolabili in maniera diversa. In questo modo la diade svolge la sua funzione ideologica, sovrascrive l’articolazione del mondo della vita, lo colonizza e cerca di imporgli una griglia di concetti a esso estranea.” (106)

5 months, 4 weeks ago

Ecco, una volta messi giù questi dati, per quanto sommari, io credo che un'intepretazione molto più sensata delle eventuali radici culturali della violenza e dell'omicidio per futili motivi di donne sia rintracciabile nell'esatto opposto del "patriarcato".
Lungi dall'aver a che fare con ordinamenti famigliari estesi, vincolanti, con elevata normatività, tipici del patriarcato, ci troviamo di fronte a contesti dove le forme famigliari sono dissolte o in via di dissoluzione, dove i giovani crescono educati più da tik-tok e dai video trap che dalle famiglie, società dove peraltro da tempo la figura del padre latita ed è spesso definita dagli psicologi come effimera. In questi contesti, "modernizzati ed emancipati" si allevano in maggior misura identità fragili, disorientate, anaffettive, che si sentono costantemente sopraffatte dalle circostanze, e che perciò, occasionalmente, possono più facilmente ricorrere alla violenza, che è il tipico modo di reagire a situazioni di sofferenza che non si è in grado di comprendere né affrontare.

Molti altri aspetti andrebbero approfonditi, ma se, come io credo, questa è una lettura assai più probabile dei fatti, le strategie che stiamo adottando per affrontare il problema vanno precisamente nella direzione dell'ennesimo aggravio dei problemi.
Questo in attesa delle lezioni di educazione sentimentale di Sfera Ebbasta.

5 months, 4 weeks ago

La prima domanda che dovrebbe venire in mente è: cosa diavolo c'entra questa forma sociale con il mondo occidentale odierno? Ovviamente non c'entra assolutamente nulla, ma questa impostazione del problema nasce negli anni '70, in cui l'idea che ci fossero ancora residui patriarcali da abbattere era il principale oggetto polemico del second-wave feminism. Oggi, mezzo secolo dopo, stiamo ancora qua a berci un'interpretazione che era tirata per i capelli allora e che oggi è letteralmente fluttuante nel vuoto.

A questo punto c'è sempre qualcuno che se ne viene fuori dicendo che sono questioni filologiche, di lana caprina, che se non va bene il termine patriarcato chiamiamolo maschilismo che va bene uguale.
Solo che il problema non è meramente terminologico, ma è legato a quale si ritiene essere la radice causale di violenze e assassini odierni. Se si evoca il "patriarcato" o simili si evoca l'immagine di un residuo ostico del passato che stentiamo ancora a lasciarci dietro le spalle. Dunque per superarlo dovremmo procedere ulteriormente con l'abbattimento di qualunque simile residuo del passato: bando al familismo, bando all'autorità paterna, bando al normativismo, sempre in odore di autoritarismo, ecc.

Ora, prima di esporre quella che credo essere un'interpretazione più plausibile, provo a sottoporre all'attenzione qualche fatto empirico.

Se il problema delle violenze si radica nei residui patriarcali in una qualche versione, allora i paesi che hanno società maggiormente modernizzate, con minori vincoli famigliari e con una posizione di maggiore indipendenza delle donne dovrebbero essere esenti da questo problema, o almeno presentarlo in misura molto minore.

Ma è davvero così?

Curiosamente ciò che si profila è esattamente l'opposto.

Se guardiamo alle violenze domestiche vediamo che (dati di un paio di anni fa) i primi paesi per denunce di violenza subita dalle donne sono quattro paesi proverbialmente emancipati: Danimarca (52% delle donne lamentano di aver subito violenza), Finlandia (47%), Svezia (46%), Olanda (45%), in coda classifica in Europa troviamo la Polonia (16%).
Naturalmente qui c'è la replica pronta: si tratterebbe di un mero effetto statistico, dovuto al fatto che in quei paesi, proprio grazie alla maggiore emancipazione, le donne denunciano di più.
Può darsi.
Allora per tagliare la testa al toro andiamo a vedere la categoria degli omicidi volontari di donne (cosiddetti "femminicidi"), che registra eventi non soggetti a filtri interpretativi.
Qui, secondo i dati Eurostat aggiornati al 2019, il profilo appare leggermente diverso, ma non troppo.
In testa in questa macabra classifica stanno costantemente i paesi baltici (Lettonia, Lituania, Estonia), insieme a Malta e Cipro, con Finlandia, Danimarca, e Norvegia poco sotto e Svezia a metà classifica. All'estremo opposto, costantemente agli ultimi tre posti troviamo Italia, Grecia e Irlanda, che si scambiano solo di posto di anno in anno.
Per un confronto numerico, l'Italia presenta un dato di 0,36 "femminicidi" ogni 100.000 abitanti, la Norvegia 0,61, la Germania 0,66, la Francia 0,82,la Danimarca 0,91, la Finlandia 0,93, la Lituania 1,24.

Ora, cosa hanno in comune Italia, Irlanda, Grecia?
Non molto, salvo il fatto di essere tutte società con un ruolo tradizionalmente molto forte delle famiglie, società di cui spesso si è lamentata la limitata modernizzazione, anche per il peso significativo delle istituzioni religiose.

Cosa hanno in comune gran parte dei paesi del Nord e in parte dell'Est Europa? Sono società che hanno subito processi estremamente accelerati di modernizzazione, con laicizzazione forzosa, e frantumazione (riconosciuta al loro stesso interno) delle unità famigliari.

5 months, 4 weeks ago

Ci sono temi più importanti e preferirei tacere su tutto il circo che è partito dalla vicenda dell'ultimo omicidio volontario di una donna. Preferirei tacere anche per preservare la salute psichica, perché ogni qual volta ci si scontra con il muro ideologico costruito dai media correnti la frustrazione è inevitabile.

Ma alla luce del fatto che il ministro Valditara sta davvero prendendo sul serio le fiabe ideologiche correnti, una parola mi sembra necessaria.
Speravo in uno scherzo, ma leggo che il ministro dell'istruzione, in una pregevole armonia di intenti con l'opposizione, sta davvero proponendo un'ora a settimana di “educazione alle relazioni” nella scuola secondaria. Non solo, la proposta prevede anche l'intervento in queste ore di educazione sentimentale di "influencer, cantanti e attori per ridurre le distanze con i giovani e coinvolgerli".

Forse fraintendiamo l'intervento del ministro, che probabilmente ha il solo scopo di incrementare l'afflusso alle scuole private. Come spiegare altrimenti questa ulteriore accentuazione della tendenza della scuola pubblica a diventare un interminabile catechismo dell'ovvio, che ripete in bianco e nero gli stessi contenuti che si ritrovano, a colori, su una rivista media da parrucchiere? Tra ramanzine moralistiche, alternanze scuola-lavoro e consulti psicologici gli spazi per insegnare qualcosa di sostanziale nella scuola pubblica si stanno riducendo a feritoie.

Ma purtroppo questo è solo piccola parte del problema.
Il problema più grosso è che l'interpretazione ufficiale degli eventi delittuosi aventi per oggetto donne ha subito da tempo un sequestro ideologico. Esiste una singola lettura che anche persone intelligenti e al di sopra di ogni sospetto ripetono pappagallescamente, come se fosse una sorta di verità acclarata. E questa lettura non è semplicemente sbagliata, che sarebbe il meno, ma è proprio socialmente dannosa, anzi dannosa per le stesse dinamiche che si immagina di voler correggere.

Provo a spiegarmi in breve.
La lettura d'ordinanza di questi eventi delittuosi è la seguente. Si tratterebbe di espressioni di un'atavica, arcaica (patriarcale), concezione subordinante della donna che la concepisce come una proprietà, un oggetto a disposizione, e che perciò non ne accetta l'indipendenza e la punisce con la violenza e persino con la morte.
Dunque, dissimulato sotto la superficie di un mondo moderno e formalmente egalitario serpeggerebbe ancora questo "residuo patriarcale", tenace e ostico da sconfiggere, che richiede perciò una rieducazione della popolazione - e della popolazione maschile in ispecie.

Ora, io credo che questa lettura delle violenze e degli omicidi spesso per futili motivi che oggi riscontriamo, tra cui anche quelli che hanno per oggetto donne, non c'entri assolutamente nulla con alcuna presunta "cultura patriarcale". E credo che le ricette che vengono proposte, lungi dall'essere risolutive, possano soltanto aggravere il problema.
Perché mai?

Partiamo da un po' di pulizia terminologica e mentale. Tutti si riempiono la bocca di "patriarcato" senza avere per lo più alcuna idea di ciò di cui si tratta. Ora, l'unico senso antropologicamente accettabile della nozione di "patriarcato" (che non va confuso con la patrilinearità della discendenza) è il modello sociale diffuso un tempo in molte civiltà dedite all'agricoltura o alla pastorizia, dove l'ultima autorità cui ricorrere per i dissidi interni e per i rapporti verso l'esterno era rappresentato dal maschio più anziano del gruppo (patriarca). Queste strutture sociali erano (e in alcune parti del mondo ancora sono) caratterizzate da una sostanziale assenza delle legislazione pubblica, da forti nessi comunitari all'interno di famiglie estese connesse, che dovevano risolvere molte questioni oggi risolte dalla giustizia ordinaria. Gli ordinamenti patriarcali sono tipicamente preindustriali e definiti da ordinamenti famigliari estremamente solidi e vincolanti.

7 months, 1 week ago

Se uno va ai resoconti degli anni prima dello scoppio della prima guerra mondiale, vedrà masse di popolazione, frustrate da decenni di stagnazione economica ed esacerbate da una propaganda giornalistica battente, inneggiare alla guerra desiderosi di "fargliela vedere" al nemico, dipinto come un bruto che fa ciò che fa per puro odio, immotivatamente.

I pochi personaggi che allora cercavano di conservare uno spirito critico, come Karl Kraus, venivano denigrati da ogni parte.

Un secolo e fischia più tardi non è cambiato niente.

L'attacco che Hamas ha organizzato contro Israele è frutto di un percorso lunghissimo, che dovrebbe essere noto, in cui un odio viscerale è stato fatto crescere.
La necessaria condanna dello scempio commesso nei confronti di civili inermi non cambia nulla nel quadro generale, dove, come chiaramente espresso anche nell'editoriale di Haaretz di ieri, questi atti belluini sono il risultato di una vicenda che ha responsabili politici ben precisi, di cui Netanyahu è uno dei principali.

Comprendere NON significa giustificare, ma questa distinzione cruciale è categorialmente assente nella maggior parte delle scatole craniche.
Niente può giustificare, cioè trasformare in qualcosa di giusto, un attacco indiscriminato a civili indifesi (da una parte come dall'altra). Comprendere serve a mettersi nelle condizioni per agire e correggere il tiro.

Di fronte ad un genocidio come quello che si profila nella striscia di Gaza il rischio che questo apra un nuovo fronte in Libano da parte degli Hezbollah è elevatissimo (Hezbollah ha esplicitamente detto che interverrà se ci sarà un'operazione dell'esercito nella striscia di Gaza).

Hezbollah ha dietro di sé l'Iran.

Intanto gli USA hanno inviato una portaerei nucleare e un bombardiere B-52 a sostegno di Israele.

L'Arabia Saudita ha chiuso la porta ad ogni processo di normalizzazione dei rapporti con Israele.

Alle minacce di Hezbollah Israele ha risposto che un loro intervento contro Israele porterà alla distruzione di Damasco (Hezbollah è alleato della Siria).

Ma la Siria è anche alleata fondamentale nello scacchiere medioorientale della Russia, che ha truppe militari in loco.

Il domino delle alleanze è pronto a far crollare tutte le tessere, come nel 1914.

A parte ciò, ci sono 25 milioni di musulmani in Europa, ed immaginando che una frazione minima, uno su mille, sia radicalizzato, questo significa avere un esercito di 25.000 potenziali terroristi in casa, che di fronte ad atti percepiti come forme di sterminio dei propri "confratelli" potrebbero attivarsi nel cuore dell'Europa.

Rispetto a questo quadro, proprio come in passato, la reazione della maggioranza è quella da rissa al bar: "Pensi che abbia paura? Ti faccio vedere io!"
Nel 1914 i più bramosi di menar le mani erano quelli che non si erano sbucciati neanche un ginocchio in tutta la loro vita, studenti e borghesia salottiera.
Oggi è la stessa cosa, con prevalenza dei salotti.

Una volta di più sarà l'imbecillità a distruggerci.

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