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Dedicato a chi è ancora nel limbo del "cosa devo fare?"," Come posso essere Felice?" A tutte quelle persone che guardano e donano la loro vita agli altri e alle cose, non dedicandola a sé stessi. Passo del "De brevitate vitae" di Seneca.
"Non si trova nessuno che voglia dividere il suo denaro: ma a quanti ciascuno distribuisce la sua vita! Sono stretti nel tenere la borsa; appena si tratta di perdere tempo, sono larghissimi in quella sola cosa in cui è virtù l'avarizia. Si prenda uno dalla folla dei vegliardi: «Vediamo che sei giunto al termine della vita umana, hai addosso cent'anni o più: su, fa' il rendiconto del tuo passato. Calcola quanto da cotesto tempo han sottratto i creditori, quanto le donne, quanto i patroni, quanto i clienti, quanto i litigi con tua moglie, quanto i castighi dei servi, quanto le corse zelanti per tutta la città; aggiungi le malattie, che ci fabbrichiamo noi stessi, aggiungi il tempo inutilizzato: vedrai che hai meno anni di quanti ne conti. Rievoca nella memoria quando sei stato saldo nei tuoi propositi, quanto pochi giorni hanno avuto l'esito che volevi, quando hai avuto la disponibilità di te stesso, quando il tuo volto non ha battuto ciglio, quando non ha tremato il tuo cuore, che cosa hai realizzato in un periodo così lungo, quanti hanno saccheggiato la tua vita senza che ti accorgessi di quel che perdevi, quanto ne ha sottratto un vano dolore, una stolta gioia, un'avida passione, un'allegra compagnia, quanto poco ti è rimasto del tuo: comprenderai che la tua morte è prematura». Quale la causa? Vivete come destinati a vivere sempre, mai vi viene in mente la vostra precarietà, non fate caso di quanto tempo è trascorso: continuate a perderne come da una provvista colma e copiosa, mentre forse proprio quel giorno che si regala a una persona o a un'attività qualunque è l'ultimo. Avete paura di tutto come mortali, voglia di tutto come immortali. Sentirai i più dire:
《A partire dai cinquant'anni mi metterò a riposo, a sessant'anni andrò in pensione». E chi ti garantisce una vita cosi lunga? Chi farà andare le cose secondo il tuo programma? Non arrossisci di riservare per te gli avanzi della vita e di destinare al perfezionamento interiore solo il tempo che non può essere utilizzato per niente altro? Non è troppo tardi cominciare a vivere solo quando è tempo di finire? Che sciocco oblio della condizione mortale rimandare i buoni propositi ai cinquanta e sessant'anni e volere iniziare la vita dal punto a cui pochi sono arrivati?"
Anche conversando con cinesi colti fui sempre colpito dal fatto che questi popoli sono capaci di integrare il cosiddetto "male" senza "perdere la faccia". In Occidente è diverso. Per gli orientali il problema morale non sta in primo piano, come per noi; per essi il bene e il male sono compresi nella natura, con un loro senso, non sono altro che differenze di grado di una stessa cosa.
Mi fece una grande impressione costatare che la spiritualità indiana contiene altrettanto male quanto bene. Il cristiano lotta per il bene e soccombe al male; l'indiano si sente al di fuori del bene e del male e realizza tale condizione con la meditazione e lo yoga. Ma a questo punto la mia obiezione è che, assunto un tale atteggiamento, il bene e il male non hanno più lineamenti precisi, con la conseguenza di una certa indifferenza: non si crede più seriamente né al male né al bene. Questi sono al più considerati come il mio bene e il mio male, non importa che cosa sembri bene o male. Si potrebbe affermare, paradossalmente, che la spiritualità indiana difetti sia del male che del bene, o che sia a tal punto contraddittoria da richiedere il nirvana, la liberazione dagli opposti e dalle mille cose particolari.
La meta dell'indiano non è lo stato di perfezione morale, ma il nirvana. Desidera liberarsi dalla natura, e perseguendo questo scopo cerca nella meditazione l'assenza di immagini e il vuoto.
Io, invece, desidero permanere in uno stato di viva contemplazione della natura e delle immagini psichiche, non voglio essere liberato dagli uomini, né da me stesso, né dalla natura: perché tutte queste cose mi sembrano indescrivibili meraviglie. La natura, l'anima, la vita, mi appaiono come la divinità dispiegata: che cosa potrei desiderare di più? Secondo me il significato supremo dell'Essere può consistere solo nel fatto che esso è, e non che non è, o non è più...La vera liberazione è possibile solo quando ho fatto tutto ci che era in mio potere fare, quando mi sono completamente dedicato a una cosa e ho partecipato ad essa al massimo. Se mi sottraggo alla partecipazione, sto amputando in certo qual modo la parte corrispondente della mia anima. Ma allora sono costretto a confessare la mia impotenza, e a riconoscere che forse ho trascurato di fare qualcosa di vitale importanza e che non ho adempiuto a un compito. In tal modo compenso la mancanza di un atto positivo con un chiaro riconoscimento della mia incapacità.
Un uomo che non è passato attraverso l'inferno delle passioni non le ha mai superate: esse continuano a dimorare nella casa vicina, e in qualsiasi momento può guizzarne una fiamma che può dar fuoco alla sua stessa casa. Se rinunciamo a troppe cose, se ce le lasciamo indietro, e quasi le dimentichiamo, c'è il pericolo che ciò a cui abbiamo rinunciato o che ci siamo lasciati dietro le spalle, ritorni con raddoppiata violenza.
Carl Gustav Jung - La saggezza orientale
Mi prosterno ai piedi del padre, gioiello che esaudisce
i desideril Benedicimi, affinché tuo figlio incontri circostanze favorevoli
Ti prego, fa' che raggiunga la certezza che il suo corpo è il palazzo delle divinità.
lo, per timore dei pericoli, mi sono costruito una casa: la casa della vacuità, la realtà assoluta. Ora non ho più timore dei pericoli!
Io, per timore del freddo, ho cercato una veste: la veste della a-shad del gtum-то. Ora non ho più timore del freddo!
Io, per timore della povertà, ho cercato delle ricchezze. le sette nobili ricchezze inesauribili." Ora non ho più timore della povertà!
lo, per timore della fame, ho cercato del cibo: il cibo dell'assorbimento meditativo nella realtà assoluta.Ora non ho più timore della fame!
Io, per timore della sete, ho cercato una bevanda: il chang [rappresentato] dal nettare della presenza. Ora non ho più timore della sete mentale.
lo, per timore della tristezza, ho cercato compagnia: la compagnia costante di beatitudine e vacuită. Ora non ho più timore della tristezza!
Io, per paura di sbagliare [strada), ho cercato un sentiero, il grande sentiero dell'unione." Ora non ho più timore di sbagliare!
Carico di ogni ricchezza desiderabile, io, lo yogin, sono felice ovunque viva.
Nella Tana della tigre alla Rocca del leone di Yõlmo il ruggito della tigre mi è caro: ciò mi spinge irresistibilmente a chiudermi in ritiro. Provo compassione per i cuccioli della tigre che giocano saltellando:
ciò mi spinge irresistibilmente a meditare la mente volta al risveglio.
Lo stridio delle scimmie mi si imprime nel cuore. Ciò mi spinge irresistibilmente al disincanto.
Il chiasso delle scimmiette mi fa ridere: cio mi spinge irresistibilmente a meditare sulla motivazione.
Il dolce richiamo del cuculo mi rattrista il cuore: ciò mi spinge irresistibilmente a versare lacrime.
Il trillo delle allodole è armonioso alle orecchie: ciò mi spinge irresistibilmente ad ascoltarlo.
Il vario gracchiare dei corvi è un compagno dello yogin, di beneficio alla mente.
Vivendo in un luogo del genere si è spontaneamente felici; senza alcun compagno, si è ancora più felici.
Possa questa melodia sulle felici esperienze di uno yogin eliminare la sofferenza degli esseri!
"I centomila canti di Milarepa"
Un uomo trovò un uovo d'aquila e lo mise nel nido di una chioccia.
L'uovo si schiuse contemporaneamente a quelle della covata, e l'aquilotto crebbe insieme ai pulcini.
Per tutta la vita l'aquila fece quel che facevano i polli del cortile, pensando di essere uno di loro.
Frugava il terreno in cerca di vermi e insetti, chiocciava e schiamazzava, scuoteva le ali alzandosi da terra di qualche decimetro.
Trascorsero gli anni, e l'aquila divenne molto vecchia. Un giorno vide sopra di sé, nel cielo sgombro di nubi, uno splendido uccello che planava, maestoso ed elegante, in mezzo alle forti correnti d'aria, muovendo appena le robuste ali dorate.
La vecchia aquila alzò lo sguardo, stupita. "Chi è quello?" chiese.
"È l'aquila, il re degli uccelli", rispose il suo vicino. "Appartiene al cielo. Noi invece apparteniamo alla terra, perché siamo polli." E così l'aquila visse e mori come un pollo, perché pensava di essere tale.
Anthony De Mello - Messaggio per un'acqua che si crede un pollo.
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