Lina Manuali

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Macché Repubblica, è la festa di una monarchia di guerra.
Di Daniela Ranieri.

Ieri, guardando la cerimonia per la Festa della Repubblica, poteva venire il dubbio che la festeggiata fosse la Monarchia. L’effetto Cinegiornale Luce era dietro l’angolo: “Corrono i bersaglieri, col sole alto e gli applausi dalle tribune”, scriveva Repubblica in tempo reale; “Meloni è stata accolta con un applauso dei cittadini presenti in piazza Venezia”, per i brividini dei pro e degli anti. Ma più dell’enfasi retorica delle marcette e della consueta pacchianeria delle frecce tricolori, a concorrere all’effetto è stato il reiterato accenno alla Difesa, alle forze militari e alla guerra in Ucraina, decisamente il fil rouge della festa nonché del ricevimento al Quirinale del giorno prima, presente l’élite della Nazione, come riportano cronache piene di lazzi e frivolezze.

Il presidente Mattarella ha detto: “La difficile condizione internazionale sottolinea l’importanza dell’apporto offerto dalla Difesa alla causa della pace e della libertà dei popoli”. Non di tutti i popoli, com’è noto: di alcuni ci sta a cuore l’autodeterminazione (Kosovo), di altri ce ne freghiamo (russofoni del Donbass, curdi, yemeniti, sudanesi, etc.), alcuni li bombardiamo noi per portargli pace e democrazia (Serbia, Libia, Afghanistan, Iraq). Indi il presidente si è rivolto al ministro delle Armi Crosetto, per “far pervenire il mio apprezzamento a tutti i militari di ogni grado, specialità e categoria”, “patrimonio del nostro Paese”, poiché “la calorosa partecipazione dei cittadini alla Festa della Repubblica testimonia… l’affetto verso le forze armate”. Non il rispetto: l’affetto. Il famoso sentimento di tenerezza per i bersaglieri che alligna nelle case degli italiani, specie poveri e disoccupati. Del resto la prima parata dell’èra Crosetto è stata contundente: ai Fori imperiali “torna in grande stile la parata del 2 giugno: oltre ai muscoli sfila la difesa civile” (Repubblica).

Mattarella passa a ricordare “i valori della scelta del 2 giugno 1946, trasfusi nella Carta costituzionale di cui ricordiamo i 75 anni di vita”; solo che in quella Carta c’è scritto che l’Italia ripudia la guerra, e quindi per giustificare che “a oltre un anno di distanza, la Repubblica Italiana, insieme alla comunità internazionale, è ancora impegnata a contrastare l’aggressione condotta dalla Federazione Russa al popolo ucraino”, bisogna prodursi nel contorsionismo semantico che da un anno impegna i giornali padronali nel tentativo di fare amare agli italiani lo sforzo bellico che ci nobilita. Bisogna dire che la guerra è pace: “La Costituzione repubblicana indica il ripudio della guerra come strumento di risoluzione delle controversie”, giusto; e allora perché inviamo armi? “Si tratta di un principio attualissimo e profondamente sentito, di cui l’inaccettabile aggressione della Federazione russa ai danni dell’Ucraina rappresenta la più brutale ed evidente negazione”. La non-giustificazione si allaccia alla chiosa emotiva: “Si stanno cercando sentieri di dialogo per giungere alla pace”: come i 7 decreti governativi (senza passare dal Parlamento) per inviare armi sempre più offensive, o come il voto al Parlamento europeo per usare i soldi del Pnrr per le armi anziché per il welfare. “I principi di solidarietà e giustizia impongono la ricerca di una pace giusta, non di una pace raggiunta ai danni di chi è stato aggredito”. “Pace giusta” è una formula ormai nota: prevede la resa della Russia non come obiettivo, ma come primo passo per un negoziato. Pace giusta uguale guerra a oltranza. Ma quale articolo costituzionale prescrive il dovere di difendere la Patria altrui? Quale trattato ci impone la difesa di un Paese non Ue e non Nato? Perché persino la mediazione del Papa è stata respinta? Ci fossero ancora dubbi che siamo tempestati da una propaganda a canali unificati che romanticizza la guerra anche nel giorno che celebra la sua sconfitta e il suo ripudio, ieri sono stati dissipati. Quale Repubblica abbiamo festeggiato?

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