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Cronache Ribelli

Description
Cronache Ribelli è un progetto narrativo di rinnovamento della narrazione storica. Raccontiamo la storia degli ultimi.
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Notizie e analisi sull'attualità e la geopolitica.

Last updated 1 month, 3 weeks ago

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CAUSA CENSURA FACEBOOK HO APERTO QUESTO CANALE
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1 week ago

Il 25 maggio 2020 George Floyd, 46 anni, nero e padre di due figli, è stato ucciso dalla polizia di Minneapolis. Quel giorno Floyd venne fermato da quattro agenti di polizia, chiamati da un negoziante che lo accusa di un presunto utilizzo di una banconota falsa. L’afroamericano fu bloccato a terra e uno degli agenti si inginocchiò sul suo collo per otto minuti, fino a togliergli la vita. L’omicida ha ignorato le suppliche di Floyd che urlava “non riesco a respirare”. Mentre i suoi colleghi assistevano alla scena senza intervenire, l’omicida continuava a premere sul collo dell’afroamericano anche quando questi aveva perso conoscenza e perfino, per oltre un minuto, dopo l’arrivo dei paramedici.
Il video dell’accaduto è diventato in poco tempo virale provocando la rabbia della comunità nera, guidata dal movimento Black Lives Matter. Nei due mesi successivi all’omicidio si sono svolte oltre 4.700 proteste in circa 2.500 città degli Stati Uniti. Nonostante la violenta repressione delle autorità e la reazione armata dei suprematisti bianchi, milioni di persone sono scese in piazza.
Derek Chauvin, l’omicida di Floyd, ha patteggiato una pena tra i 20 e i 25 anni di carcere, mentre i tre colleghi sono stati condannati per non essere intervenuti e per non aver tutelato i diritti civili della vittima, a giugno sarà resa nota l’entità della condanna.

1 week, 1 day ago

Domenica siamo in partenza, destinazione Calabria.
Questi gli appuntamenti:
👉 domenica 26: Reggio Calabria, CSOA Cartella, ore 18.30 presentazione di Partigiani Contro e Ventennio di Sangue
👉 lunedì 27: San Ferinando (RC), Giardino della memoria, ore 18: presentazione del progetto editoriale e delle ultime pubblicazioni
👉 martedì 28: Catanzaro, Centro Polivalente Via Fontana Vecchia, ore 18: presentazione del progetto editoriale e delle ultime pubblicazioni
👉 mercoledì 29: Crotone, Park'n'Ride, ore 18: presentazione di Fuori dal buio con l'autore Francesco Piobbichi e aggiornamento sul progetto editoriale e sulle ultime pubblicazioni

1 week, 2 days ago

Nell'estate del 1942 vennero organizzate diverse partite di calcio per tenere occupati i soldati e distrarre la popolazione. Nella città di Kiev vengono create squadre formate dai militari tedeschi, ungheresi e romeni, ucraini collaborazionisti e un paio di squadre locali, tra cui una chiamata Start, formata da ex calciatori della Dinamo Kiev e della Lokomotiv.
La Start, capeggiata dal portiere Nikolai Trusevich, si impose rapidamente e facilmente su tutte le altre squadre, anche sulla Flakelf, composta da uomini della Luftwaffe e della Gestapo.
Ed è qui che la storia inizia a mischiarsi con la leggenda: il 9 agosto si gioca la rivincita.
Da una parte la Start, con una maglietta di stoffa rossa, come la bandiera dell’URSS, che sul campo sta realizzando una rivincita contro gli occupanti, dall’altra la Flakelf.
Lo stadio è gremito. Da una parte la gente di Kiev, dall’altra i soldati della Wehrmacht, i collaborazionisti e le SS. La partita inizia e nel primo tempo la Start domina imponendosi per 3 a 1. Negli spogliatoi, secondo alcune fonti, l’arbitro, che apparteneva alle SS, dice che quella partita i giocatori sovietici la devono perdere. Altrimenti non riporteranno la pelle a casa.
Effettivamente alla ripresa la Start sembra imballata, docile. E così prende subito due gol. Ma a metà del secondo tempo tutto cambia di nuovo. Gli ucraini tornano all’attacco e il risultato finale sarà poi di 5 a 3 per la Start.
Ecco, tutto quello che abbiamo scritto fino ad ora secondo altre fonti non è mai avvenuto. Sì, la partita c’è stata, ma il gioco era leale e amichevole.
Fatto sta che nei mesi successivi molti giocatori della Start saranno uccisi dai tedeschi. Nikolaj Korotkikh viene torturato come spia dell’NKVD, mentre Trusevich, Klimenko e Kuzmenko sono ammazzati nel campo di concentramento di Syrets. Lavoravano in un panificio e i tedeschi li accusarono di aver cercato di avvelenarli.
Alla fine della guerra solo tre giocatori della Start sopravvivono. Ma non parlano. Hanno paura che la polizia sovietica li consideri collaborazionisti del nemico per aver giocato quel torneo. Sarà Gundarev dopo la destalinizzazione a raccontare questa incredibile straordinaria storia.

2 months, 1 week ago

Anche quest’anno, come in ogni anniversario della terribile strage delle Fosse Ardeatine, circoleranno falsi storici che ormai da tempo hanno contaminato l’immaginario collettivo.
Sono diverse le colonne portanti di questa narrazione: i Gap si sarebbero potuti consegnare per evitare la strage, i partigiani sapevano che le autorità occupanti avrebbero reagito con una strage, la rappresaglia era legittimata da codici di guerra, gli uomini della Polizeiregiment Bozen non erano nemmeno “autentici tedeschi” ma innocenti poliziotti “mezzi-italiani” (tirolesi).
Tutto falso. E basta aprire un qualsiasi libro di storia sulla vicenda (noi consigliamo “L'ordine è già stato eseguito: Roma, le Fosse Ardeatine, la memoria” di Alessandro Portelli) per scoprirlo. Noi, nel nostro piccolo, cercheremo di dare un contributo per riaffermare quantomeno i fatti inconfutabili della vicenda.
Andando con ordine.
I partigiani non potevano evitare la strage, perché semplicemente nessuno chiese loro di consegnarsi. Le autorità tedesche eseguirono la rappresaglia senza comunicarla e solo alle 22,45 del 24 marzo produssero un comunicato in cui affermavano di aver ucciso “dieci comunisti-badogliani” per ogni soldato morto in Via Rasella.
La strage delle Fosse Ardeatine non era stata preceduta da alcun episodio di questo tipo nelle grandi città occupate dall’esercito tedesco. Eppure i tedeschi avevano già fucilato a Roma numerose persone, per ragioni di varia natura, ma non si trattava certo di rappresaglie. Ergo la reazione era imprevedibile e le violenze in altre occasioni slegate da motivi “occasionali”.
Nessun codice di guerra dell’epoca legittimava le rappresaglie uno a dieci. Anzi com’è noto si trattò di un ordine diretto di Hitler in aperta violazione anche del codice militare tedesco vigente.
Infine gli uomini della Polizeiregiment Bozen non erano come ha scritto qualche giornale tempo fa dei “vecchi militari disarmati” ma dei reparti di polizia operativi, “pienamente atti alle armi, di età compresa tra i 26 ed i 43 anni e che gli stessi erano dotati di sei bombe e di "machine-pistolen".
Ora, si possono fare tante riflessioni su Via Rasella. Si possono dare valutazioni diverse sui risultati dell’attacco e sul ruolo dei Gap nella Resistenza romana. Quello che non si può fare è mentire e sottacere che l’attacco, comunque legittimo, fu operato in teatro di guerra, contro reparti affiliati ad un esercito occupante, che con l'appoggio di un governo fantoccio controllavano un paese e vi imponevano un regime autoritario e criminale.

2 months, 1 week ago

Erano in 600.
Dovevano marciare da Selma a Montgomery, capitale dell’Alabama, per denunciare le leggi segregazioniste che rendevano difficile o addirittura impedivano ai neri la partecipazione alla vita politica, l’iscrizione alle liste elettorali e il voto.
Dovevano marciare anche per Jimmie Lee Jackson, che il 18 febbraio di quel 1965 era stato colpito con diversi colpi di pistola nella vicina cittadina di Marion da un agente di polizia. La sua colpa era quella di essere un nero, lottare per i propri diritti e aver manifestato per la liberazione di James Orange, un attivista tenuto prigioniero nel carcere locale. Jimmie, diacono, pacifista e ovviamente disarmato, era sceso in piazza insieme a tante altre persone; caricato senza motivo dalla polizia, dopo essere stato inseguito in un pubblico esercizio fu colpito a morte. Il 7 marzo dovevano marciare, insomma, fino a Montgomery.
Non ci arrivarono mai.
Il governatore dell’Alabama, George Wallace, ordinò ancora una volta di reprimere con durezza la manifestazione per i diritti civili. Lo sceriffo della contea locale, Jim Clark, obbedì alle direttive con entusiasmo. Schierò i suoi uomini e reclutò appositamente decine di nuovi vice sceriffo. Insieme a loro ad aspettare i manifestanti sull’Edmund Pettus Bridge c’era anche un piccolo esercito di cittadini razzisti armati di pietre e bastoni.
I seicento attivisti vennero caricati da poliziotti a cavallo, picchiati selvaggiamente e investiti dai gas lacrimogeni. Si contarono decine e decine di feriti, di cui alcuni molto gravi. Ma nonostante la repressione il movimento decise di tornare sulla stessa strada il martedì successivo. La polizia era di nuovo sul ponte ad attenderli. Questa volta gli attivisti erano duemilacinquecento, ma decisero di tornare indietro. Il 21 marzo però divennero ben ottomila a partire da Selma, guidati dal reverendo King e scortati dall’esercito americano e dalla guardia nazionale. Una sentenza di un tribunale federale aveva sancito il loro diritto a manifestare fino a Montgomery.
Alla fine la terza marcia arrivò fino al palazzo del governatore Wallace. Qui M.L. King pronunciò uno dei suoi discorsi più celebri contro la segregazione razziale.

2 months, 1 week ago

Le due inchieste si intrecciano. Ilaria e Miran seguono la pista di alcune navi somale comprate con soldi italiani che a volte vengono affondate dalla criminalità organizzata nei mari italiani, le cosiddette "navi a perdere", e che più spesso tornano in Somalia cariche di rifiuti. Rifiuti seppelliti sotto le nuove infrastrutture costruite con il denaro della cooperazione. Si tratta di un'inchiesta importante, importantissima, che in Italia e non solo, solleverebbe un gran polverone e farebbe cadere molte teste. Dopo otto giorni a Bosaso Ilaria e Miran hanno raccolto parecchio materiale video e riempito diversi taccuini e stanno per realizzare un servizio. Lei lo dice ai suoi superiori in Rai.
Secondo questa interpretazione dei fatti i due, a Mogadiscio, vengono seguiti e attirati in un'imboscata. Alcuni testimoni dicono che Ilaria e Miran prima di essere uccisi vanno a casa di Giancarlo Marocchino, il primo a trovare i loro corpi. Marocchino non è una persona qualunque. Collabora con i servizi segreti, conosce tutti i signori della guerra somali, e sarà indagato per traffico illecito di rifiuti. Altri testimoni dicono che i due reporter addirittura si recano in una abitazione di proprietà del consolato italiano.
Ritornati sull'auto i due vengono fermati da una grossa jeep da cui scendono diversi uomini armati. L'autista e la guardia del corpo di Ilaria e Miran non sparano un colpo e i due giornalisti sono uccisi con un colpo di pistola alla nuca. Un'esecuzione premeditata insomma, non una sparatoria.
Questa ricostruzione sarebbe supportata da numerose prove. I taccuini di Ilaria, i video realizzati da Miran, l'autopsia fatta al Porto Vecchio, i fori sull'auto dei due. Eppure tutte queste prove finiscono per sparire, per essere compromesse, oppure vengono addirittura falsificate, come l'auto, che viene portata in Italia e periziata per poi scoprire che molto probabilmente non è quella dell'agguato.
Qualcuno, secondo noi correttamente, inizia a parlare di depistaggio. I servizi oppongono il segreto di stato ad alcune domande che i legali della famiglia Alpi gli presentano. La commissione parlamentare d'inchiesta, che ha potere investigativo, chiede di indagare sui giornalisti che si occupano del caso, che vengono puntualmente interrogati e perquisiti a scopo intimidatorio.
Insomma si lavora per insabbiare. E come spesso avviene in Italia è una delle poche cose che lo stato riesce a fare bene.
A ventisei anni di distanza, dopo l'assoluzione di Omar Hassan, la verità giudiziaria è ben lontana dall'essere accertata. Per quanto riguarda quella storica scegliete voi a quale ricostruzione credere, noi un'idea molto chiara ce la siamo fatta.
Quello che è sicuro è che non ci dimentichiamo di Miran e di Ilaria, uccisa a trent'anni, perché stava facendo il suo dovere, perché cercava la verità, perché voleva cambiare il mondo.

4 months, 1 week ago
Vi aspettiamo questa sera a Verona!

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4 months, 1 week ago

Il generale Trepov, governatore di San Pietroburgo, era noto ai suoi contemporanei per la violenza con cui reprimeva ogni minimo segnale di insubordinazione.
Nel 1877 era diventato per volere dello Zar governatore di Pietroburgo e in questa veste in luglio si era recato a visitare il carcere di detenzione preventiva. Qui si trovava Aleksey Bogoljubov, dissidente politico incarcerato per aver preso parte ad una manifestazione antigovernativa. I due si incrociarono nel cortile della struttura e il prigioniero nel salutare il generale non si tolse il berretto dal capo. Trepov allora gli andò incontro e gli strappò il copricapo, poi ordinò che venisse vergato con violenza.
Il detenuto fu frustato selvaggiamente tanto da uscire profondamente segnato - anche a livello mentale - dall’esperienza.
La vicenda suscitò un certo clamore in Russia poiché dimostrò che le tiepide riforme di Alessandro II in tema di giustizia non avevano certo modificato lo strapotere degli apparati repressivi sulla popolazione. Trepov ricevette l’appoggio di Khostanti Pahlen, ministro della giustizia, ed in breve tempo il caso si smontò.
Ma c’era qualcuno che non era affatto disposto a dimenicare.
Un giovane donna di nome Vera Zasulic.
Già conosciuta dalla polizia zarista per aver frequentato ambienti nichilisti e aver partecipato ad attività antigovernative, era stata in passato arrestata e deportata. Tornata in libertà nel 1873, aveva continuato la sua attività rivoluzionaria fino a quando aveva appreso la notizia della fustigazione.
Decise allora di vendicare Bogoljubov. Vera sapeva che Trepov era solito ricevere dei postulanti di tanto in tanto. Nel gennaio del 1878 riuscì ad inserirsi in uno di questi gruppi. Quando finalmente fu al cospetto del governatore gli fornì un documento falso da esaminare e poi, estratta la pistola che teneva nascosta sotto la mantellina, gli sparò ad un fianco a distanza ravvicinata.
La giovane venne subito arrestata mentre Trepov sopravvisse all’attentato.
In sede processuale Vera affermò che era stata costretta ad agire in quel modo perché in Russia non c’era altra possibilità per aver giustizia delle violenze che le persone comuni subivano. Incredibilmente nel marzo del 1878 la Zasulic venne assolta e rimessa in libertà. Probabilmente a pesare sulla sentenza vi fu la convinzione, espressa anche da ambienti governativi, che una condanna avrebbe scatenato disordini e rimesso in moto una campagna contro Trepov e contro il sistema repressivo russo.
Vera espatriò in Svizzera e, da esule, dopo aver intrattenuto rapporti epistolari con Marx ed Engels fu tra i fondatori della prima organizzazione socialdemocratica russa.

Questa è una delle storie che raccontiamo nel secondo volume di Cronache Ribelli, da poco giunto alla terza ristampa. Lo trovate qui:
https://shorturl.at/coxKX

Cronache Ribelli

Cronache Ribelli Volume II

Così come il primo, questo almanacco raccoglie storie che abbiamo raccontato in pagina e oltre 70 pezzi inediti che, nei prossimi mesi, renderemo fruibili sui nostri canali social. ​​​​​Come il primo volume, libro è completamente autoprodotto e si compone…

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